Senza dubbio Pier Paolo Pasolini ha avuto un ruolo importante nella critica culturale e sociale della recente storia italiana. Lo hanno ripetuto all’infinito i mezzi di informazione negli ultimi tempi. Con questo ricordo personale voglio solo riesumare un episodio della lunga e intensa attività politica del poeta di Casarsa che, va ammesso, presenta talora uno spirito antiautoritario.
Nella primavera del 1968 sull’”Espresso” apparve un suo intervento assai polemico nei confronti degli scontri di Valle Giulia del 1° marzo, una delle rare occasioni nelle quali la polizia aveva dovuto arretrare, dopo aver occupato militarmente la facoltà romana di Architettura, di fronte alla reazione decisa e vincente degli studenti.
Nelle numerose facoltà occupate in tutta Italia, pure a Trieste, la “battaglia di Valle Giulia” fece salire l’entusiasmo del movimento a livelli sconosciuti: si era appena verificato un bellissimo e inatteso evento. Una famosa canzone celebrò il fatto con una frase esplicita ed esaltata: “Non siamo scappati più”.
Il testo di Pasolini, sotto un titolo ambiguo “Il PCI ai giovani” esplicitava senza remore la sua natura provocatoria ripresa poi nel dibattito proposto dalla stessa rivista con intellettuali e dirigenti della sinistra col titolo ”Vi odio, cari studenti”. Il ragionamento sembrava di tipo veteroclassista. Gli studenti erano figli di famiglie privilegiate che potevano mantenerli agli studi, i poliziotti provenivano dalle classi umili e come tali avevano dovuto vestire la divisa. Insomma la marxista (e non solo) lotta di classe veniva applicata con un risultato sorprendente: non più la denuncia della repressione poliziesca, com’era abituale, bensì la difesa della polizia vittima della violenza dei pargoli dei borghesi.
In realtà le parole di Pasolini alternano momenti di critica ad altri di autoironia e offre spunti piuttosto incredibili. Così si condannano gli studenti per non aver polemizzato con il PCI negli anni Cinquanta: se non erano ancora nati, era peggio per loro! E la condizione inevitabile di borghesi lo spinge ad affermare: “Buona razza non mente”. Insomma l’egocentrico personaggio si concede molte licenze inventandosi, ad esempio, che i giornali della borghesia “vi leccano il culo”. Forse avrebbe dovuto leggerli quei giornali e rendersi conto delle calunnie e delle mistificazioni del “Corriere della Sera” e degli altri fogli contro il movimento studentesco. Ma è probabile che PPP non ritenesse doveroso documentarsi prima di esternare: il suo pensiero si autogiustificava da solo!
Le sue osservazioni disincantate e spregiudicate, come in altre occasioni, non sono del tutto fuori luogo. Ad esempio, egli denuncia il fatto che molti studenti attivisti gridino “orribili slogan” in quanto ossessionati dall’idea della conquista del potere. Oppure ricorda che i poliziotti sono “umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella dei poliziotti” e sorprende nel momento in cui dichiara, senza il minimo senso di contraddizione: “Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.
Pasolini si addentra anche nelle nebbie di una fantasia distorta e presuntuosa inventandosi di trovare negli studenti in movimento certi elementi spregevoli: “il moralismo del padre magistrato o professionista” accanto al “teppismo conformista del fratello maggiore” insieme all’ “odio per la cultura della madre di origini contadine”. Sarebbe proprio il caso di dire che è un intellettuale con un mestiere di cui diffidare: si costruisce ad arte uno scenario, quasi del tutto inventato, per scagliarvisi contro con una veemenza senza vero fondamento.
Non si limita a criticare le occupazioni studentesche degli atenei, ma regala dei consigli che ritiene preziosi: occupate le fabbriche con i giovani operai dando loro metà dei soldini che ricevete dai vostri padri borghesi. Inoltre suggerisce di occupare le Federazioni del PCI, partito a cui attribuisce, contro ogni evidenza, “l’obiettivo teorico della distruzione del Potere”.
Insomma questa poesia di Pasolini si presenta come un coacervo di ipotesi irreali, di letture fantastiche, di anticonformismo esibito, di alcuni giudizi discutibili ma fondati e di altri del tutto arbitrari. Questo è stato, secondo me, il significato del suo scritto pubblicato nel momento delle diffuse manifestazioni di una parte della gioventù ribelle animata, almeno in parte, dall’opposizione alla società autoritaria e ipocrita.
Tutto ciò ha pesato molto qualche mese dopo, ai primi di settembre del 1968, a Venezia. Si teneva un convegno del movimento studentesco di diversi atenei, tra cui quello di Trieste che era stato occupato nel febbraio-marzo. Come persona impegnata fino in fondo nel movimento, mi trovavo a partecipare a questo fitto scambio di esperienze e riflessioni in cui circolavano idee e posizioni, diverse e originali, presenti in ogni parte d’Italia.
Durante un’assemblea fu annunciata la partecipazione di un “signore che intende parlarci della sua poesia”. (In quei giorni era a Venezia per la Mostra del Cinema e non voleva lasciarsi sfuggire l’occasione). Al comparire di Pasolini si alzò subito e potente un coro di “Vai dai poliziotti!” oltre a grida simili. Il non- invitato assistette compiaciuto al rifiuto plateale e, dopo un paio di minuti, tolse l’autentico disturbo. La provocazione era stata messa a segno e tutto sommato ne era soddisfatto.
Gli strascichi di questa apparizione indesiderata si faranno sentire per vari anni nel più generale movimento di contestazione e con ambizioni variamente rivoluzionarie. Ciò valse almeno fino al 12 dicembre 1969, quando le bombe di Piazza Fontana scardinarono anche i suoi pregiudizi. Da allora Pasolini collaborerà, a modo suo e grazie alla notorietà ormai acquisita, alla campagna di controinformazione e mobilitazione che riuscirà a smascherare la Strage di Stato.
Claudio Venza